
L’elezione di Donald Trump tra dubbi e paure
L’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America nel novembre 2016 ha provocato una serie di dubbi e perplessità (ma anche paure) sul futuro politico, economico e ambientale del Pianeta. Non solo, anche il sistema dei media è stato messo sotto sopra dall’ultima corsa alla Casa Bianca che ne ha evidenziato parecchi limiti strutturali. In particolare, sono stati messi alla gogna i social network, accusati di veicolare informazioni false (fake news) che tendono a favorire l’elezione di partiti e leader populisti. La diffusione di questo genere di notizie avrebbe così permesso la vittoria del (ex?) magnate statunitense, premiando la sua campagna elettorale aggressiva.
L’era della post-verità
L’accusa a Google, Facebook, Twitter e Co. ha avuto un’eco così forte che il temine post trouth (la condizione per cui la verità di un’affermazione assume un’importanza secondaria rispetto alle emozioni che quell’affermazione suscita) è stato eletto “parola dell’anno 2016” dall’Oxford English Dictionary. Non solo, anche i “grandi” del web 2.0, dopo un importante mea culpa, sono corsi ai ripari. Nella primavera del 2017 è stata dunque annunciata la nascita della News Integrity Initiative, un consorzio contro le fake news lanciato da Facebook, Wikipedia e Mozzilla insieme ad atenei e organizzazioni no-profit di tutto il mondo, con l’obiettivo di sensibilizzare e formare l’opinione pubblica sull’importanza di coltivare una comunicazione on line di qualità. Al tempo stesso Facebook ha lanciato un algoritmo-filtro contro le bufale, per limitare ancora di più la portata delle fake news. Il controllo delle informazioni pubblicate non è ancora sbarcato in Italia, ma l’azione di Facebook si è risolta esclusivamente nella pubblicazione di un decalogo in cui sono pubblicate alcune buone pratiche (controllo delle fonti, attenzione ai titoli a effetto, verifica delle date) per non farsi “fregare” dalle fake news scritte e condivise ad hoc da molti siti internet.
Una sconfitta per Facebook
Tuttavia, una recente ricerca dell’Università di Yale ha smentito le dichiarazioni del colosso di Mark Zuckerberg sul buon funzionamento del tool anti-bufale: a quanto pare – almeno per la maggioranza di un campione di 7.500 persone – l’etichetta di fake news riportata su un determinato contenuto non è sufficiente. Molti utenti infatti continuano a credere a ciò che vogliono credere e la scritta “messa in discussione da un fact-checker terzo” non cambia la loro percezione, anzi è un motivo di interesse verso la news stessa se non, addirittura, la punta dell’iceberg di un’ipotesi di complotto. Ma l’aspetto della ricerca che sorprende maggiormente gli studiosi (e non solo) è l’incapacità dei più giovani di distinguere il vero dal falso: sta crescendo una generazione che, abituata a informarsi on line in modo veloce e sintetico e a dare giudizi con modalità altrettanto frenetiche, sarà sempre più manipolabile da chi decide di fare dei messaggi iper-semplificati e faziosi i suoi strumenti di politica più forti.
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